IGOR STRAVINSKY
IGOR STRAVINSKY
(Oranienbaum, 1882 – New York, 1971)
Se per Debussy ci eravamo chiesti se fu vera gloria, per Stravinsky dovremmo chie-derci quanto è rimasto di tanta gloria. Il nome del musicista russo – come quello di Picasso in pittura – si è letteralmente fuso con il concetto di musica nel Novecento, al punto da consustanziarsi con esso e da fagocitare qualunque altro compositore, Schönberg compre-so, la cui popolarità è stata praticamente nulla all’infuori della cerchia specialistica, mentre Stravinsky, oltre che un’icona culturale, è stato un divo mondiale al pari di Chaplin e, appunto, di Picasso. Il suo nome, nell’immaginario comune, lo si è sempre associato all’idea di una musica difficile, nuova, che scombinava tutti i parametri e dalla quale ci si poteva aspettare di tutto. Per quanto modesta, tale visione non era lontana dal vero. Sta di fatto che lui, promotore inesausto di se stesso, ha sempre fatto di tutto per consolidare questa sua immagine di enfant terrible anche a sessant’anni: suscitatore di scandali, di critiche sulfuree, di battaglie accanite. Sempre sotto i riflettori, pronto a giudicare e trarre conclusioni anche attraverso memorie scritte, testi divulgativi, dichiarazioni pubbliche, asserzioni assiomatiche. Un personaggio da prendere con le pinze: caustico, sardonico, in fondo inafferrabile, che è impossibile ricondurre a grandi gesti o a conclamate prese di posizione aldilà della preminenza musicale. La critica stessa, di fronte alle scelte di campo contraddittorie di quest’uomo, ha scritto tutto e il contrario di tutto su di lui, additandolo al tempo stesso come rinnovatore e affossatore della musica del XX secolo. A noi tutto questo importa però relativamente poco. Come ho già scritto, quello che ci interessa dav-vero è la presenza attuale, attraverso il documento discografico (e quindi il gradimento pubblico), di un dato autore attraverso quelle composizioni che ancora hanno un seguito. La discografia di Stravinsky è monumentale e parte veramente da lontano, dalla prime incisione elettriche dello stesso autore e non risparmia praticamente nessuno dei grandi del podio, laddove persino Furtwängler e Klemperer hanno lasciano testimonianze irrile-vanti ma probatorie di un interesse ineludibile per questo autore. Dopo una prima serie di registrazioni mono destinate al 78 giri, tra gli anni Cinquanta e Sessanta Stravinsky regi-stra per CBS il suo intero repertorio in stereofonia, attualmente disponibile nel catalogo SONY. Chiunque vorrà dunque ascoltare anche le composizioni più marginali di Stravin-sky interpretate da lui potrà rivolgersi a questo importante lascito. Io non mi ci riferisco in questa sede per la semplice ragione che trovo Stravinsky un direttore dotato ma assoluta-mente mediocre se paragonato, poniamo, a un Bernstein o a un Ansermet. Vediamo dun-que quello che di tanta gloria è attualmente vivo e operante a livello discografico.
L’oiseau de feu (L’uccello di fuoco), Balletto completo Orchestre della Svizzera romanza Direttore: Ernest Ansermet (Decca, 1957)
L’oiseau de feu (L’uccello di fuoco), Balletto completo Orchestre Sinfonica di Montreal Direttore: Charles Dutoit (Decca, 1985)
L’oiseau de feu (L’uccello di fuoco), Suite del 1911 Orchestra Sinfonica di Radio Berlino Direttore: Lorin Maazel (Deutsche Grammophon, 1957)
E’ la partitura più prossima al mondo di Rimsky-Korsakov che esista. Se non si sa quello che si ascolta (accade con certe invasioni radiofoniche in auto, per esempio) si può benissimo confondere la Suite dell’Uccello di fuoco con intere pagine di Sheherazade. E’ capitato a me col numero stravinskiano del Gioco delle principesse con le mele d’oro. Per di-versi minuti ho creduto di ascoltare il brano del principe e della principessa, il terzo della Suite sinfonica Op. 35 di Rimsky. Capita. Ma era per dare l’idea di quanto Stravinsky, in barba alle sue pretese ascendenze musicali dai mugik veterorussi, sia in effetti il figlio più riuscito del grande Rimsky, del cui stile soprattutto questo celebre Balletto è letteralmente impregnato. Ma è tutto il Balletto, assolutamente geniale e colmo di straordinarie idee melodiche, che trabocca degli stili russi più eterogenei: oltre che di Rimsky anche di Mus-sorgsky e Čajkovskij, che Stravinsky alterna con un’abilità che ha dell’incredibile. Un tale coacervo di tendenze che si assommano richiede direttori con ampie esperienze di reper-torio. Ansermet, che era anche amico intimo dell’autore, lo tratta del pari: inserendolo senza indugio in quella corrente tardoromantica che sfocia nella Parigi di inizio Nove-cento. Nessuna ricerca quindi di, peraltro inesistenti, particolari che alludano alle future metamorfosi stravinskiane. Restiamo a Rimsky, per carità: avanza e basta. Dutoit sembre-rebbe il direttore meno adatto ad illustrare il mondo pretestuosamente demoniaco del compositore russo. Tutt’altro, invece. Nell’Uccello di fuoco il colorismo, la pennellata che si sfalda nella tela, il particolare celato da brume di colore indefinibile ci sono, eccome. Colorista nato, dal respiro ampio e dal procedere cadenzato ma certo della via seguita, Dutoit realizzò nel 1985 questa smagliante riproduzione del Balletto senza mai forzare, ovvero senza inserire nell’Uccello di fuoco i furori demoniaci della Sagra della primavera. Ne ebbero gran beneficio tutti quei momenti, e sono tanti, in cui lirismo e abbandono sen-timentale prendono la scena. In definitiva, uno Stravinsky fresco, innovatore ma ricon-ducibile a una ben chiara tradizione. Come deve essere. La Suite in cinque tempi, che Stra-vinsky estrasse del Balletto completo nel 1911 (ma ne avrebbe fatte altre due, nel 1919 e nel 1947) è la versione forse più incisa. Tra tantissime edizioni, quella supremamente elegante realizzata da Maazel a Berlino nel 1957 resta come tappa fissa nella discografia di questo composizione per l’esattezza toscaniniana dei pesi e dei colori strumentali, con potenti affermazioni dinamiche e trasparenze timbriche che rendono l’intera partitura una sorta di smalto cristallino, su cui la vicenda è incisa a fuoco.
Petruŝka, Versione del 1947 Orchestra di Philadephia Direttore: Eugen Ormandy (CBS-SONY, 1964)
Petruŝka, Versioni del 1911 e del 1947 Orchestra Sinfonica di Baltimora Direttore: David Zinman (Telarc, 1991)
Quando il Balletto Petruŝka venne dato a Vienna, due anni dopo la prima parigina del 1911, l’orchestra della Staatsoper si rifiutò di eseguirlo sostenendo che quella musica era sporca. Noi oggi non abbiamo idea dell’effetto che una simile composizione potesse fare a quel tempo. E’ vero che l’autore con quest’opera ormai bitonale e a ritmi sovrapposti si stava aprendo strade nuove, ma riascoltata oggi Petruŝka è musica assolutamente innocua, perfettamente coesa con la sceneggiatura coreografica di Fokine, tutta oscillante tra ritmi ora incalzanti ora rallentati e oasi dense di un lirismo patetico, perfetto soundtrack di uno dei primi film di Chaplin, di cui Stravinsky anticipa tempi, situazioni, svagate divagazioni, surreali malintesi, miserie appese a un sasso preso a calci e a una strada deserta che si incunea nel The End. Raramente un compositore è stato tanto profetico come lo è stato Stravinsky in questo Balletto nel ritrarre lo squallore di un mondo di automi (anche se qui si tratta di marionette). Siamo davvero all’oggi in bianconero del cinema, al volto smagato e infarinato di Buster Keaton, ai vinti di tutte le bidonville delle metropoli europee e ameri-cane. Nella storia delle tre marionette e del burattinaio, nella crudele rappresentazione di una condizione umana che è regolata da un destino beffardo e inconoscibile (contro il qua-le non c’è più lotta beethoveniana), è scorciata la condizione umana di tutti, non solo degli emarginati e dei poveri di spirito. La difficoltà con questa partitura è quella, più volte evidenziata, della sottolineatura gratuita, della mano che calca sulla cera. Non è il caso. I timbri freddi degli strumenti e i ritmi irregolari della narrazione, il prevalere di un mondo di latta e di stracci ridipinti emergono anche con una lettura semplicemente oggettiva. La ricerca spasmodica di tensioni supplementari e di un abbassamento della temperatura coloristica, anche qui alla ricerca di grottesche connessioni schönberghiane inesistenti, hanno spesso prodotto letture gratuitamente disumanizzate. Al contrario, il mostruoso che ci comunica Petruŝka nasce e si concretizza proprio dall’esposizione solennemente pacata dell’atmosfera fastosa con cui il Balletto apre i battenti, per poi attraversare tutti gli episodi toccando il vertice con quelle asserzioni patetiche affidate alla tromba, irrisoria e tragica come certi sorrisi di Charlie Chaplin. Devo dire che tra tante e tante letture di Petruŝka quella di Ormandy con l’orchestra di Philadephia rimanda a questa pittura di genere, senza aggiunte, senza scolii o glosse che schiaccino l’occhio a chissà quali incisi dodeca-fonici: ovvero senza metallizzare una carrozzeria piena di buchi e di plaghe ossidate originali. Come Ormandy, ma presentando entrambe le versioni del 1911 e del 1947 (anno del rifacimento dello strumentale e persino dell’ordine numerico), è David Zinman con la Baltimora Symphony, in una delle grandi registrazioni natural di Telarc.
La Sacre du printemps (La sagra della primavera) Orchestra Filarmonica di Israele Direttore: Leonard Bernstein (Deutsche Grammophon, 1982)
Orchestra del Metropolitan di New York Direttore: James Levine (Deutsche Grammophon, 1992)
Con il Boléro di Ravel e la Settima Sinfonia di Šostakovič, la Sagra è la composizione musicale più nota ed eseguita del Novecento. Le contendono il posto pochissime altre opere: Pini di Roma di Respighi, Carmina Burana di Orff (che senza Le nozze stravinskiane non sarebbero quello che sono), l’Adagio di Barber, l’Alexander Nevsky di Prokofiev, forse la Musica per Archi di Bartók, sicuramente i Vier letzte Lieder di Strauss: una manciata di note se paragonate all’Ottocento. Ma tanto è rimasto. Durante una prova della Sagra con l’Orchestra Schleswig Holstein, Leonard Bernstein se ne uscì, a proposito di quest’opera che ha avuto in lui forse il massimo interprete, con questa apodittica affermazione: “La sagra della primavera è… sesso!” Non è difficile, una volta che si è ascoltata una registrazione di Bernstein di questo discusso Balletto, capire che cosa volesse dire il grande direttore americano con quel “sesso”. Ma la registrazione di Stravinsky con la Columbia Symphony Orchestra è tutto meno che sesso: prudente, riguardosa, disossata: è sì la sagra, ma quella della moderazione, del buon senso, in piena sconfessione, praticamente mezzo secolo dopo, di quell’altra sagra che proprio lui aveva scritto: quella dei sensi che esplodono, dei denti che mordono, delle membra agili e sciolte, della natura primigenia, carnale e onnivora, ancestrale e paurosa. A questa opulenza ecumenica e immanente che nel Sacre esplode e fa paura si sono opposti in diversi, a par-tire delle schermografie ambulatoriali di Pierre Boulez e di Claudio Abbado, bardi entram-bi di interpretazioni seriali del primo Stravinsky. Ricordo le recensioni discografiche soprattutto relative a Boulez, nelle quali si esaltava la capacità ineffabile del direttore francese di sottolineare il sottolineato: ovvero di enucleare dai timbri strumentali verti-ginose parentele con Webern, Varèse, Stockhausen. Andai dunque a sentire Boulez con in mente i quadri primordiali suscitati da Bernstein nella versione CBS con la New York Philharmonic, e alla fine mi ritrovai gravido di due certezze: la prima, che mi ero annoiato; la seconda, che non capivo niente. Annoiato, perché passare dal Sacre di Bernstein (o di Levine) a quello di Boulez equivale a bere acqua tiepida in luogo di una Coca Cola ghiac-ciata sotto la canicola. Certo invece della mia ottusaggine e del mio oscuro futuro, perché nei fagotti del Sacre non ero stato capace di cogliere un’assonanza con la Kammersinfonie Op. 21 o con Ionisation per 13 percussionisti. Così, nelle convinzione di essere destinato all’estinzione culturale, continuai ad ascoltare La Sagra della primavera da Bernstein. E oggi so che ho fatto bene. Ma ognuno lo può vedere da sé con qualche ascolto comparato. Più che il sesso, è il daimon quello a cui si riferiva Bernstein parlando della Sagra, la dionisiaca forza vitale insita nell’uomo e nella natura. Quest’opera è del 1913: anno fatale, che avrebbe visto l’emergere di un altro strappo nella cultura musicale del Novecento: ossia il Pierrot lunaire di Schönberg, del quale sono il meno adatto a parlarne, ma che oggi può essere fruito solo da intellettuali dotati di strumenti di raffinata percettibilità. Secondo una vulgata accettata, ambedue le opere presentirebbero l’avvento epocale della Grande Guer-ra e la fine di un’era. Non lo discuto. Ma quello che emerge dalla Sagra è soprattutto il senso del primitivo inteso come manifestazione mitica e rituale, dove i tempi cosmici influiscono sulla natura biologica dell’uomo e la determinano con la bestialità più esteriore e con l’appello pelvico più violento. Mai si erano infatti ascoltati provenire, da un’orche-stra sinfonica, suoni più paurosi; mai un pubblico aveva subito l’assalto di ritmi più terrificanti, poiché Stravinsky è soprattutto questo: una manifestazione estrema delle forze naturali. Nella Sagra gli accordi hanno il peso delle piramidi; le progressioni dinamiche fanno riferimento a uragani protostorici; i ruggiti degli strumenti dimorano nelle nostre paure più antiche: ci si ritrova in un sogno, o meglio, in una vita anteriore, dove ogni istante ci può cogliere avvinti da corpi di vergini o tra le fauci di ributtanti rettili. Nessuno aveva mai concepito qualcosa del genere, nessuno era mai sceso così nel profondo nel Dna dell’uomo, sollecitando stupore, ribrezzo, fastidio, nausea, orrore, vertigine. Come tutto questo possa poi essere ricondotto ai singhiozzi di un Webern lo sanno solo Boulez e i critici che ne hanno controfirmato le interpretazioni stravinskiane. In quanto alla Grande Guerra, convengo che gli orrori del Carso e di Verdun possano benissimo essere illustrati dal Sacre in quanto a violenza e mostruosità ritmica. Ma credo che qui la famosa sensibilità profetica dell’artista non funzioni proprio, poiché Stravinsky non presente un bel nulla. Il suo genio spontaneo guarda indietro, non davanti, e tutto sommato è significativo che gli sceneggiatori della Disney abbiano utilizzato brani del Sacre per illustrare proprio l’estin-zione dei dinosauri. A cento anni esatti dalla sua prima parigina questa composizione è ancora in grado dunque di lasciare attoniti e quasi atterriti, purché l’interpretazione sia proprio quella che Bernstein ha riassunto in una parola di fronte agli strumentisti sbalorditi della Schleswig Holstein: sesso! Sesso come impulso privo di connotati civili, alieno da profili culturali, impermeabile a qualunque forma di logica concettuale: il nucleo profondo e pericoloso (tutto Freud ce l’ha spiegato) dell’essere uomo. Tra le infinite registrazioni della Sagra ho senza dubbio indicato il Bernstein estremo della versione israeliana del 1982 e la registrazione metropolitana di Levine di 10 anni dopo. Non sono alternativi e ad ambedue non c’è limite ad un approccio, diciamolo pure, dionisiaco a quest’opera. In entrambi la massima potenza sonora e la più violenta scan-sione ritmica dominano incontrastate, dando l’idea di un’apocalisse dentro la quale restia-mo pietrificati, al punto che verrebbe voglia di coprirsi la testa con le mani. Altre letture di queste dimensione primordiali, dove la violenza della natura raggiunge il limite del sop-portabile, non ne conosco. Karajan, a suo tempo, tentò una mediazione tra potenza sonora e misteriose illustrazioni notturne, dando forse più corpo all’aspetto originario del mito e del sacrificio umano, e raggiunse anche lui un livello di profondità inquietante. Sulla stes-sa strada si posero Muti e Maazel, mentre una certa scuola francese, Monteux e Ansermet, per esempio, in qualche modo aderirono alla visione abregée, in termini emotivi, dello stesso autore. Di Boulez e della sua serializzazione dell’intero universo sonoro, Mahler in-cluso, ho già detto. Mentre scrivevo questa sezione dedicata a Stravinsky mi sono spesso chiesto: cosa è rimasto di lui dopo questa prestigiosa e tumultuosa primavera della sua vita, dopo questa sagra in cui, in tre anni, dal 1910 al 1913, concepì e realizzò tre capolavori assoluti dell’arte musicale del Novecento, capaci ancora di parlare a tutti? In puri termini discografici, dopo la triade dei Balletti, la situazione decisamente precipita. Certo, le incisioni sono tante, ma cominciano a diradare sensibilmente. Tutto il periodo cosiddetto neoclassico è molto ben rappresentato dal disco, da Pulcinella a Jeu de cartes, da Edipo Re a Il Bacio della fata, da Apollon Musagète a Perséphone a Sinfonia di Salmi. Vi si sono cimentati artisti molto diversi come estrazione e indole, ma la diffusione di queste composizioni presso il grande pub-blico del disco è certamente ridottissima se paragonata a quella dei Balletti. Non parliamo poi dell’ultimo Stravinsky, quello che inaspettatamente abbraccia la dodecafonia, quello del Canticum sacrum e delle Lamentationes. Liquidare però questo grande protagonista della musica del secolo scorso come un artista che, dopo un’esplosione iniziale di genio, cade nella più astuta e dorata mediocrità, non solo è ingiusto, è non vero. Certamente la para-bola artistica di Stravinsky sconcerta chiunque: a partire dagli anni Venti, l’invasione can-nibalesca di territori non suoi, i cambi di rotta, l’omogeneizzazioni di antico e nuovo, l’uso e l’abuso di tecniche primitive o raffinatissime sono tali da disorientare critica e pubblico anche oggi, quasi che in lui si riassumano arrogantemente mille anni di musica occiden-tale. Fatti dunque salvi i tre grandi Balletti della giovinezza, nell’opera di Stravinsky ci si deve muovere con cautela: sorprese e disagi sono spesso dietro l’angolo. C’è per esempio da chiedersi se opere di solida fama come Apollon Musagète potranno apparire nient’altro che una rimasticatura di un sinfonismo tardo-settecentesco, senza idee di particolare rilevanza, e del tutto irrilevante se a scriverlo non fosse stato Stravinsky. Di lavori come Pulcinella e Jeu de cartes se ne trovano diversi tra i neoclassici di quegli anni; e neppure l’impegno profuso in Edipo Re e nella Messa raggiunge minimamente la vetta del genio così com’era apparso a inizio anni Dieci. Ecco: è questa la domanda bruciante. Cosa sarebbe sopravvissuto di Stravinsky se egli non avesse composto L’uccello di fuoco, Petruŝka e La sagra della primavera? Aldilà di ogni considerazione, di Stravinsky si può dire che l’intera sua opera, che la si consideri l’estrema propaggine di Rimsky-Korsakov, l’imitazione osmotica del settecento italiano e della polifonia antica o l’assunzione di contorni weber-niani, avrà quasi sempre un vantaggio su quella della maggioranza dei compositori del Novecento e sarà quello – come sacrosantamente scrive Confalonieri – di essere sempre “riconoscibile e comprensibile per la presenza di quelle articolazioni tematiche, di quella raffigurazione dei contorni sonori, di quel consenso da parte della nostra naturale strut-tura musicale, per quella equivalenza fra il suo procedere e le forme tipiche del nostro conoscere che costituirono e costituiranno in eterno le ragioni del vero in musica”. Lascio ovviamente che ognuno – dopo aver cercato Stravinsky nei dischi e attraverso la bibliografia - risponda a modo suo a quanto io stesso ancora mi chiedo. Personalmente, sul pianeta di un’altra galassia, di Stravinsky porterei quei tre Balletti. Il resto, per quanto rimarchevole e fonte di piacere e meditazione, può anche restar qui, sulla nostra Terra.