RICHARD WAGNER
RICHARD WAGNER
(Lipsia, 1813 – Bayreuth, 1883)
Le biografie classiche dei grandi compositori, specie un tempo, erano spesso sotto-titolate con due brevi sostantivi: l’uomo e l’opera, separando, spesso nettamente, la vicen-da biografica dalla produzione artistica. E’ una cosa, questa, che non si può certo fare con un taglio chirurgico, poiché l’opera di un uomo è la diretta conseguenza della sua stessa vita, ma una suddivisione è in parte possibile e percorribile. Ciò accade naturalmente an-che con Wagner, il quale possiede una bibliografia veramente imponente, più accostabile a quella di Napoleone che non a quella di Beethoven: ovvero qualcosa come 10.180 pubblicazioni nell’anno della sua morte. Lo dico perché non voglio e non devo entrare nel merito della vita di un artista che certamente è il più discusso, il più amato e il più odiato dell’intera storia della musica. E stavolta nemmeno provo a indicare uno studio biografico che lo riguardi. Ognuno faccia e giudichi da sé. Per quanto mi concerne metto sul tavolo solo due domande, ossia: come poté il secondo Ottocento dare un tale credito a questo artista e per quale ragione egli ebbe un’influenza tanto enorme durante e dopo la sua vita? Rispondere in due parole non è facile, ma ci provo. Che a metà Ottocento, dopo due secoli e mezzo, il Teatro d’Opera avesse bisogno di una riforma era ormai chiaro a tutti. Verdi stesso, dopo il 1848, imbocca una strada pro-gressista che lo porterà agli esiti straordinari delle tarde Opere, che se fossero state prese a modello avrebbero garantito al dramma in musica molti più anni di vita. Ma Wagner si propose come riformatore unico e dogmatico e pretese che ognuno si conformasse al suo nuovo concetto di teatro in musica. Lo fece con due semplici espedienti: il primo, che è la parte del genio, con una musica talmente nuova e talmente sconvolgente da lasciare anni-chiliti praticamente tutti; il secondo, l’opera dell’idealista, sposando quella musica a una drammaturgia illusoria, basata su presupposti mitico-filosofici di nessuna consistenza, ma che opposti al melodramma italiano e francese (che tagliavano di grosso un po’ tutto) parvero mirabolanti intuizioni divine. Poi, basandosi unicamente su un processo di tipo ontologico, ovvero l’asse colpa-espiazione-redenzione, ideò e realizzò sette Musikdramen di smisurata lunghezza elevando la figura del musicista a ruolo di messia laico e facendo della musica una religione monoteista. Per molto meno, Schumann era impazzito. Così, nelle generale crisi di valori che attanagliò l’Occidente a tre quarti dell’Ottocento, la maggioranza dei compositori nati a metà secolo vide in Wagner quella stella polare che, una volta seguita, avrebbe addotto alle soglie di un futuro inimmaginabile. Con questa illusione di progressione lineare, in Italia gl’italiani rinnegarono Verdi e tutta l’evoluzione del melodramma; in Germania, i tedeschi disconobbero Brahms e lo sviluppo formale della musica austro-tedesca. In Francia, la tarda reazione di Debussy fu manifesta, reclamizzata, per certi versi malintesa ma, a sua volta, origine di un processo che avrebbe portato alla catastrofe. Così, nel solco wagneriano, si incamminarono in molti, in troppi: Bruckner, Mahler, Strauss, Schönberg e la Seconda Scuola di Vienna, producendo alla fine, soprattutto attraverso l’evoluzione del cromatismo, una tale frattura tra produzione e gusti del pubblico da ridurre la musica a una gelida branca intellettuale di tipo settoriale. Se Wagner lo avesse intuito sarebbe inorridito: ma l’atonalità e la dodecafonia, all’anagrafe della storia, risultano poi essere suoi discendenti. Fuori dall’area germanica, alla presa gravitazionale wagneriana sfuggirono però in parecchi: in Francia, Bizet; in Boemia, Smetana e Dvorak; in Austria, gli Strauss; in Russia, Ciaikovsky e Rimsky-Korsakov. In Italia, il solo che riuscì ad andare per la sua strada e sopravvisse fu Puccini, e la ragione di tanto è così semplice che talvolta la musicologia ha dimenticato di spiegarcelo. Ovvero: aderendo al concetto di Dramma in musica di stampo wagneriano, i compositori italiani si trovarono nella felice posizione di poter disobbedire all’obbligo del declamato melodico verdiano, ovvero della melodia, ovvero delle idee, ovvero di quella cosa che ha fatto grandi certi autori e tanti altri no. Comporre un’opera senza un disegno melodico è esattamente come concepire un affresco senza saper tracciare una forma: basta allora la tecnica astratta degli imbrattatele, e di imbrattatele fu quasi l’in-tero corpus dei compositori italiani post-verdiani, votati a un declamato generico e a un ap-porto sinfonico di puro mestiere. E, senza melodia, il nostro melodramma divenne un’altra cosa, che il pubblico infine disconobbe. Oggi la drammaturgia wagneriana in lingua tedesca è, per i non germanofoni, un limi-te invalicabile, e anche una conoscenza discreta del testo in traduzione non migliora le co-se. I libretti scritti dallo stesso Wagner - in un tedesco così arcaico che noi italiani pos-siamo averne un’idea solo evocando la poesia aulica del primo Carducci - solo in margine sono sceneggiature drammatiche aderenti alla progressione narrativa di ciò che avviene in scena. Nella maggior parte dei casi rappresentano invece la possibilità offerta all’autore per dichiarazioni di intento precettistico, orazioni etiche e sermoni vagamente profetici. Conseguenza inevitabile: in Wagner l’azione è pietrificata, la tensione dinamica è spesso inesistente, i ritmi sono incagliati in una sorta di tempo ciclico, dentro il quale appaiono e scompaiono sempre gli stessi personaggi, latori di perorazioni stentoree o macerazioni introspettive. La musica, per quanto rivoluzionaria e di bellezza assoluta, all’interno dei Musikdramen viene diluita e resta sottesa al declamato col compito di tessuto connettivo: i famosi Leitmotive, che sono gli unici fari che illuminano notti tediose e infinite. Wagner, in definitiva, fu un sommo sinfonista incapace di scrivere libretti adatti a rappresentare le grandi epopee tragiche da lui immaginate, e finì per esprimere soprattutto valori artefatti di eroismo mitologico attraverso archetipi disumanizzati: superuomini fossilizzati e tor-mentati da colpe ancestrali oppure razze inferiori di ominidi difficilmente definibili in termini antropologici. In lui, l’uomo non c’è, o meglio, esiste la sua rappresentazione letteraria, affidata alla retorica dialettica, portata a livelli maniacali di tautologia perenne. L’ascolto della musica wagneriana attraverso il disco – parlo delle Opere complete – è una delle esperienze più eroiche che un musicofilo italiano possa affrontare. Personal-mente, e l’ho già scritto, fatti salvi i casi di Mozart e Weber, trovo che l’Opera tedesca sia uno dei più grandi fallimenti culturali dell’Occidente, proprio perché si tratta di un genere che si è voluto far attecchire, più con le cattive che con le buone, su un terreno che non solo era inadatto, ma refrattario a tal genere di pianta. Il tentativo disperato di evocare il con-cetto di canto (strumentale non meno che vocale) nell’Opera tedesca è poi stato il cimento quasi secolare di almeno tre generazioni di interpreti, e solo Toscanini e Karajan hanno raggiunto un risultato apprezzabile in tal senso: parzialmente o integralmente. Ma veniamo ai dischi. Innanzitutto è bene dire che, stante la complessità della strumentazione e dell'organico dell'orchestra wagneriana, il periodo della registrazione acustica (sino al 1925) fu più che altro funestato da incisioni che non riuscirono a comu-nicare un minimo della dinamica, dei colori e degli impasti timbrici delle partiture wagne-riane. Fu solo a partire dalle prime registrazioni elettriche che si ottennero dischi di un qualche rilievo storico e soprattutto di una qualche verosimiglianza acustica. Vi provvide, dal tempio di Bayreuth, lo stesso figlio di Richard, Siegfried, che incise tra il 1926 e il 1927 per la Columbia britannica una scelta di Ouvertures e Preludi paterni. A dire il vero sono ottime registrazioni, sia dal punto di vista della tecnica di ripresa del suono che da quello interpretativo. Siegfried, per quanto gran sacerdote del tempio, rappresenta infatti il più lontano esempio che si possa immaginare della cosiddetta scuola storica bayreuthiana, che a Wagner ha recato danni paragonabili a quelli che il Verismo ha inflitto a Verdi. Niente retorica tribunizia, dunque, nelle incisioni del 1926-27, ma una ricerca dell'effetto teatrale confidata soprattutto alla chiarezza espositiva e all'articolazione dei piani sonori. Non a caso, tre anni dopo, e in lotta contro un autentico groviglio di vipere, Siegfried romperà qualunque indugio e installerà sul podio del tempio nientemeno che Toscanini, mandando a casa tutti i Muck e gli Elmendorff che stavano avvilendo il livello esecutivo della stessa capitale wagneriana. Che Toscanini non fosse un chiodo fisso di Siegfried ma un'esigenza di rinnovamento di tutta la drammaturgia wagneriana, lo si vide nel 1933, quando, appena salito al potere, lo stesso Hitler si scomodò personalmente per ottenere dal direttore ita-liano la certezza della sua partecipazione al Festival. Ma con un gesto storico Toscanini non gli rispose nemmeno. Sino agli anni Cinquanta, comunque, la storia discografica wagneriana è soprattutto affidata ai recital vocali o agli estratti operistici. Non che man-chino incisioni quasi complete di alcune Opere realizzate prima della fine della Seconda Guerra Mondiale: L’olandese volante, 1944; Tannhäuser, 1930; Lohengrin, 1942; Tristano e Isotta, 1928: ma si tratta comunque di versioni incomplete e in genere affidate alle vestali di Bayreuth, salvo la prima di esse, l'Olandese volante diretto da Clemens Krauss, regi-strazione di sicuro valore che ancora oggi è disponibile sul mercato. Come e più degli altri operisti, anche Wagner deve però attendere la nascita del microsolco nel 1948 per vedere l'incisione completa dei propri lavori, la cui lunghezza impone da sempre autentiche avventure produttive sia in termini finanziari che musicali. In tal modo, dei primi anni Cinquanta, oggi si ricordano soprattutto le produzioni in stu-dio curate da Furtwängler (Tristano e Isotta e La Valchiria) e Knappertsbusch (I maestri can-tori di Norimberga e Parsifal). Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, con l'avvento della stereofonia, vengono realizzate alcune tra le più importanti imprese discografiche del secolo scorso: le due versioni della Tetralogia dirette da Georg Solti (1958-1965, Decca) e da Karajan (1966-1969, Deutsche Grammophon). Si tratta di due mo-menti fondamentali della storia del disco, che i due grandi interpreti porteranno avanti negli anni a seguire con l’incisione praticamente completa del catalogo wagneriano. Ma a questo punto credo sia soprattutto saggio per chi non conosce o conosce poco Wagner affrontarlo attraverso le prime Opere, quelle più “italiane”, ovvero Tannhäuser e Lohengrin.
Tannhäuser (Kollo, Dernesch, Ludwig, Braun, Sotin) Coro dell’Opera di Stato di Vienna e Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Georg Solti (Decca, 1971)
Tannhäuser è il punto più alto del romanticismo wagneriano, la sua creazione più teatralmente concisa e vibrante. Fa parte del trittico Olandese-Tannhäuser-Lohengrin, di fatto la Trilogia wagneriana certamente più nota all'Ottocento, quella che gli oltranzisti di Bayreuth, fedeli ai dogmi del dramma musicale puro, guardarono sempre con un senso di distacco e forse di censura. Trilogia non ancora fondamentalista, dunque, Trilogia ancora aperta al teatro, solo in parte inquinata dalla perorazione idealistica, parzialmente aliena da un messianesimo conclamato. Fu e in genere rimane la parte della produzione di Wag-ner più capita e amata dalla cultura latina, quella che, in versione italiana, fu conosciuta e apprezzata soprattutto in Argentina, in Spagna e talvolta anche negli Stati Uniti. Gli in-flussi dell'Opera italiana e francese vi sono ancora evidenti per la cantabilità, il gusto dell'effetto, dei contrasti, certa grandiosità esteriore, e soprattutto una maggiore essen-zialità espressiva. Tuttavia Tannhäuser è un'Opera che soffre di una discografia ridotta e discontinua. La prima registrazione di essa, del 1930 e in versione di Parigi, fu allestita a Bayreuth e sfortunatamente apparve sotto la direzione di Karl Elmendorff invece che sotto quella di Toscanini. Bayreuth era infatti in esclusiva con la Columbia britannica e Tosca-nini incideva da pochi anni per la Victor americana. Fu forse il primo clamoroso esempio di scontro tra major ed ebbe come conseguenza la perdita di un documento capitale. Dopo quella prima versione bisognerà comunque attendere vent'anni perché nel 1949 e nel 1951 Deutsche Grammophon e Urania approntino le prime due edizioni nate per il microsolco, ambedue di buona levatura a livello orchestrale ma decisamente carenti su quello vocale. In tal modo, tra cast inadeguati, innesti tra edizioni ibride, direttori incapaci di garantire la tensione drammatica che questo lavoro esige per oltre tre ore, la rosa delle possibilità di scelta si riduce praticamente alla produzione Decca diretta da Solti o poco più. E' una delle registrazioni meglio realizzate della storia discografica e fa parte integrante con la Tetra-logia da pochi anni conclusa dal direttore ungherese, e di tale esperienza si avvale per l’impianto dell'insieme e per le grandi scene del secondo atto. Sostenuta da una magnifica registrazione, la produzione Decca del 1971 propone l'edizione integrale di Parigi del 1861 e si avvale dei maggiori cantanti di quegli anni. Del Wagner di Solti mi limito a dire che le multiformi atmosfere che il direttore evoca nella Tetralogia, distribuite in oltre quindici ore, qui le concentra in tre. E' un digradare e un sovrapporsi di stati d'animo, quadri inte-riori ed esteriori, scorci panici. Con un ritmo serrato sino allo spasimo, si alternano languo-re, esortazione mistica, evanescenza estatica, soprassalti. Abilissimo a suscitare atmosfere mutevoli Solti estrae dalla musica wagneriana i frutti più carnosi, e Tannhäuser esalta al massimo queste sue qualità organizzative, fino a consentirgli di firmare una delle sue più convincenti ricreazioni wagneriane in disco.
Lohengrin (Thomas, Grümmer, Ludwig, Fischer-Dieskau, Wiener) Coro dell’Opera di Stato di Vienna e Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Direttore: Rudolf Kempe (HMV-EMI-WARNER, 1962) (King, Janowitz, Jones, Stewart, Nienstedt) Coro e Orchestra della Radio bavarese Direttore: Rafael Kubelik (Deutsche Grammophon, 1970)
Lohengrin è l'ultimo ponte, il passaggio definitivo dalla Trilogia sperimentale al Dramma musicale, il prologo al Tristano e Isotta e all'Anello del Nibelungo. E' infatti qui che prende forma risolutiva il Leitmotiv, la glossa segnaletica wagneriana, fonte di infinite variazioni e metamorfosi, e soprattutto è qui che la poesia wagneriana si scinde netta-mente in parti strofiche e parti liriche, di conseguenza aprendosi al quel declamato dram-matico che da allora sarà il cardine stesso del teatro di Wagner. Lohengrin è però una crea-zione ambivalente, bilanciata sul rapporto tra ideale e reale, mito e storia, fantasia e con-cretezza. Il protagonista (uno sorta di anonte nordico figlio di Parsifal custode del Graal) è, a detta dello stesso compositore, il prototipo dell'artista moderno (Wagner, dunque), costretto a vedersi degradato dalla bassezza degli impulsi umani, gravato dal potere, irriso dalla mediocrità. Una creazione del genere, nella quale il canto prevale ancora sull'or-chestra, non poteva non trovare riscontro soprattutto nell'area della cultura latina, abituata a un melodramma più pragmatico e sostanziale ma anche desiderosa di evadere nel fan-tastico e nell'irreale. Fu infatti con Lohengrin che Wagner, nel 1871, fece il suo ingresso in Italia, scatenando di fatto quella questione wagneriana che contrappose i sostenitori del Verdi-Tradizione al Wagner-Progresso, e che fu tanto nefasta per la nostra cultura, e non solo musicale. Lohengrin, nelle versioni ritmiche nostrane, trovò comunque una colloca-zione di eccezionale rilevanza, soprattutto grazie a una tradizione tenorile che, partita dal-le rappresentazioni di Bologna del 1871, si protrasse sino alle incisioni a 78 giri di Del Monaco nel 1949 Entrambe le versioni discografiche segnalate in apertura sono di alto rilievo. L'edizione diretta da Kempe è la più terrena, quella che in un certo senso rinuncia alla mistica per concentrarsi sulla narrazione, dando naturalmente grande risalto alle ragioni del canto e al lirismo insito nel rapporto tra Lohengrin ed Elsa, che è poi la stessa strada seguita da Kubelik, per quanto i timbri di ineffabile bellezza di King e della Janowitz traspongano questa lettura in un una rosa di celesti beatitudini dantesche.
Tristan und Isolde (Suthaus, Flagstad, Greindl, Fischer-Dieskau, Thebom) Coro del Covent Garden e Orchestra Philharmonia Direttore: Wilhelm Furtwängler (Columbia-EMI-WARNER, 1952)
(Windgassen, Nilsson, Talvela, Wächter, Ludwig) Coro e Orchestra del Festival di Bayreuth Direttore: Karl Böhm (Deutsche Grammophon, 1966)
Ho chiesto qualche volta ai wagneriani osservanti (ce ne sono ancora) quale fosse l’Opera del maestro che avrebbero voluto conservare tra tutte. Nessuno ha avuto dubbi: Tristano e Isotta. Non mi sono stupito, poiché questa, aldilà delle innovazioni puramente strutturali e musicali, è la creazione più umana di Wagner. Non è altro infatti che una storia d’amore. Certo, lo sono anche le altre: Elisabetta e Tannhäuser, Elsa e Lohengrin, Eva e Walter, Sigfrido e Brunilde, ma questa è assurta, tramite la poesia di Goffredo di Strasburgo e il dramma wagneriano, a modello universale dell’infelicità sentimentale, come Abelardo ed Eloisa, come Romeo e Giulietta. Tuttavia, nonostante questa comune vicissitudine del cuore umano, il Tristano non è un lavoro che possiamo far nostro con qualche semplice audizione. Innanzitutto va letto a fondo il libretto, cercando, per quanto possibile, di penetrare il senso prosodico dell’originale. Poi va ascoltato a lungo, almeno per familiarizzarsi con la musica: così, senza nemmeno tenere sott’occhio il testo; poi, via via che abbiamo cominciato a sentirlo nostro, attraverso la simultanea lettura dell’originale e della traduzione. Solo allora si può accedere anche a una versione video. Altri metodi, con Wagner soprattutto, non ne esistono, pena la noia. Ora, accennare anche minimamente a un’esegesi storico-critica del Tristano non è possibile. Bisognerebbe essere malati di mente per farlo, soprattutto perché esiste una sterminata letteratura in merito, e comunque non è immaginabile condensare in qualche pagina gli infiniti problemi filosofici, poetici e musicali che tale creazione comporta. Pas-siamo dunque alla produzione fonografica, dicendo che prima dell’edizione HMV diretta da Furtwängler non c’è nulla che valga la pena oggi di ascoltare, fatte salve pagine sparse nell’interpretazione dei grandi cantanti tedeschi dell’era dei 78 giri. E veniamo a Furtwängler, la cui lezione wagneriana, dopo 70 anni, è ormai consegnata, con gli allori della laurea honoris causa, agli archivi del disco. Direi, senza rimpianti. Il suo Tristano e Isotta può però ancora dirci molto, e questo in grazia soprattutto sua, di Furtwängler, e non tanto di una Kirsten Flagstad a fine carriera, mitica e senile come una Brunilde sopravvissuta al crollo del Walhalla; o a un Ludwig Suthaus che ascoltato oggi mostra tutte le grinze di un vecchio tenore in congedo. No, stavolta, il merito sta nella visione mitico-sacrale del direttore, che svelle i due protagonisti da qualunque collocazione temporale (alto o basso medioevo che dir si voglia) e li colloca – ancora una volta dante-scamente – in un girone sfuggito a una cantica della Commedia. Sono esattamente come Paolo e Francesca, questo Tristano e questa Isotta scolpiti dal fraseggio ampio e doloroso di Furtwängler. Ci vengono incontro dal disìo chiamati sulle ali di una bufera infernale. Ci narrano la loro storia disperata, poi scompaiono nei baratri della benedizione finale. Non è l’unica edizione possibile di questo dramma cosmico proprio perché umano, ma è ancora, a tanti anni di distanza dalla sua produzione, una delle più toccanti, e alla quale è bello rivolgersi sia per conoscerla che per ritrovarla. Su tutt’altro piano si pone la lettura bayreuthiana di Karl Böhm: incisiva, asciutta, essenziale, lontana dai compiacimenti morbosi in cui cadrà Bernstein negli anni Ottanta o dalle nevrosi junghiane di un Kleiber. Non a caso uno dei nemici mortali di quest’Opera è quel processo sovrastrutturale che ne inquina le interpretazioni con aggiunte di estrazione psicanalitica o antropologica di dubbia provenienza, di fatto trasformando un Dramma in musica in una conferenza medico-scientifica di tipo adorniano. Via, siamo seri! Tutto som-mato siamo all’opera, e meno retorica intellettuale ci si mette, meglio è per tutti. Per cui, arginate dal buon senso luterano di Karl Böhm, ascoltiamo le voci straordinarie (nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario”) di Wolfgang Windgassen e di Birgit Nilsson: un Tristano e un’Isotta così non li sentiremo più. Fino ad oggi, almeno.
Brani orchestrali, Ouvertures e Preludi da: Rienzi, L’olandese volante, Tannhäuser Lohengrin, Tristano e Isotta, I maestri cantori di Norimberga L’anello del Nibelungo, Parsifal e Idillio di Sigfrido Orchestra Philharmonia Direttore: Otto Klemperer (Columbia- EMI-WARNER, 1960-1961)
L’anello del Nibelungo (estratti orchestrali) Orchestra di Cleveland Direttore: George Szell (CBS-SONY, 1968)
Ouvertures e Preludi da: Lohengrin, Tristano e Isotta I maestri cantori di Norimberga La Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dèi, Parsifal Orchestra della NBC Direttore: Arturo Toscanini (RCA, 1949-1952)
Ouvertures e Preludi da: L’olandese volante, Lohengrin, Tristano e Isotta I maestri cantori di Norimberga, Parsifal Orchestra Filarmonica di Berlino Direttore: Herbert von Karajan (EMI-WARNER, 1974-1975)
Per quanto non fornito di dosi massicce di buon senso, onestamente non me la sento di consigliare con leggerezza trasognata questa o quella versione dell’Anello del Nibelungo, dei Maestri cantori e di Parsifal. L’ho già visto fare in vetuste guide di patria memoria, che formalmente non tenevano conto di rivolgersi a un pubblico di possibili ascoltatori italiani. Infatti, a chi non conosce che superficialmente Wagner l’approccio con i tardi Musikdramen potrebbe risultare fatale senza tutta una serie di accorgimenti preliminari. Insomma, con Wagner siamo di fronte a un novemila metri, e su un novemila metri non ci vai senza l’allenamento e l’ossigeno. Qui, più o meno, è la stessa cosa. Aggiungo che il tipo di dram-maturgia operistica del compositore tedesco, come ho già detto, priva com’è di un disegno melodico riconoscibile ed espressa in una lingua per noi incomprensibile, può essere solo fonte di disagio e di noia se affrontata di petto. Per cui, prima di arrivare ad avvicinare creazioni colossali come Götterdämmerung o Parsifal è meglio conoscere a fondo le prime Opere e soprattutto ascoltare – e questo non solo è facile ma è indispensabile – tutti gli estratti orchestrali e i preludi che ho sopra elencato. Si tratta di musica di una bellezza inarrivabile, capace di sconvolgere nel profondo chiunque la ascolti. Libera da ogni vin-colo teatrale, ricondotta alla chiarezza del tratto sinfonico, può veramente penetrare in ognuno di noi raggiungendo strati sepolti nella nostra individualità più segreta. E’ un’esperienza che chiunque ami se stesso deve fare. Però, attenzione agli interpreti. I dischi antologici dedicati a Wagner sono tantissimi, e giustamente, da ottant’anni in qua, legioni di direttori hanno registrato gruppi di estratti sinfonici più o meno estesi. Le indicazioni date in apertura non sono però arbitrarie. L’antologia curata da Klemperer nel 1960 a Londra è forse la più completa e organica per conoscere tutta la parabola wagne-riana, da Rienzi a Parsifal. Personalmente non considero Klemperer uno dei direttori car-dine dell’Opera di Wagner. Le testimonianze che ci ha lasciato, sia pure autorevolissime, si riducono all’Olandese volante e a una selezione di Valchiria. Poche per capirne l’approccio, anche se in fondo Klemperer interprete di Wagner è riconducibile proprio alla parte nobile della più austera tradizione bayreuthiana. Dato il personaggio, roccioso e intransigente, qui siamo di fronte a un Wagner tragico e possente, oscuro e severo, immerso in una drammaturgia di stampo eschileo, di grandi e petrose dimensioni: però mai retorico, mai sopra le righe o inutilmente enfatico. La suite di brani sinfonici dall’Anello del Nibelungo di-retta da Szell a Cleveland è, al contrario di Klemperer, un’esplosione di luce timbrica e una sfarzosa rincorsa dei momenti più insigni dello sterminato ciclo nibelungico, in tal modo concentrato in un poema sinfonico di variegata bellezza. Una riflessione sulle testimonianze sonore lasciate da Arturo Toscanini e di quelle raccolte nel corpus di registrazioni wagneriane di Karajan richiede però uno spazio di note-voli dimensioni, poiché tali testimonianze attraversano e suggellano non meno di un seco-lo di esegesi interpretativa. Soprattutto gli studi di Giuseppe Pugliese, sparsi in articoli enciclopedici e in saggi specifici, hanno analizzato e sviluppato a fondo la poetica dei due direttori sullo sfondo dell’universo wagneriano. Tali saggi non sono facilmente reperibili, ma chiunque fosse interessato all’argomento dovrà finire per rivolgervisi. Per quanto possibile ne darò alcuni estremi nella bibliografia. Per restare a noi posso solo aggiungere che le registrazioni di Toscanini e Karajan sono imprescindibili per comprendere l’anima più profonda della drammaturgia wagneriana, quella legata al canto come veicolo espres-sivo irrinunciabile, aldilà di qualunque magniloquenza dimostrativa e di ogni ingerenza intellettuale nel mondo teatrale del compositore tedesco.